Love Me. Per sempre (vol 3) Read online




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  Il libro

  L’autrice

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  Ringraziamenti

  Copyright

  Copertina

  Frontespizio

  Inizio del libro

  Copyright

  Il libro

  Sempre pronta ad aiutare chiunque si trovi in difficoltà, Amy è completamente assorbita dal suo lavoro di assistente sociale e da Jeannie, la bambina che ha da poco in affido. Dopo una settimana particolarmente faticosa, una sera, in un bar, si imbatte in Sam, affascinante dottorando dell’università di Pearley, ma capisce all’istante che non è assolutamente la persona adatta con cui iniziare una relazione. Infatti lui, dopo essere stato rifiutato dal suo grande amore, passa da una storiella all’altra, senza mai rivedere nessuna delle sue conquiste. Eppure, gli basta una serata con Amy per non riuscire più a togliersela dalla testa.

  Tuttavia, sebbene in cuor suo desideri qualcuno che si prenda cura di lei, la ragazza fatica ad aprirsi con gli altri a causa di un trauma che l’ha segnata nel profondo e, soprattutto, ha paura a fidarsi di un uomo che non le sembra il più affidabile del mondo. Spetterà a Sam tentare l’impossibile per far innamorare Amy, dimostrandole non solo di essere capace di un sentimento vero, ma anche di poter diventare una figura di riferimento per la piccola Jeannie.

  Con quest’ultimo capitolo si conclude la trilogia bestseller di Kathinka Engel, nuovo nome del genere New Adult, che riesce a raccontare con delicatezza e dolcezza le dinamiche del cuore.

  L’autrice

  KATHINKA ENGEL vive tra Monaco e Londra, ed è laureata in Letterature Comparate. In passato, ha lavorato per un’agenzia letteraria, per una rivista letteraria, e come traduttrice e editor. Quando non scrive o legge, fa un tifo sfegatato per la sua squadra di calcio del cuore e viaggia con lo zaino in spalla.

  kathinka-engel.de

  Twitter: @KathinkaEngel

  Instagram: @kathinka.engel

  Kathinka Engel

  LOVE ME. PER SEMPRE

  Traduzione di Angela Ricci

  1

  Amy

  L’ENORME parallelepipedo di cemento che ospita perlopiù case popolari si staglia respingente contro il cielo insolitamente grigio della California. Ton sur ton. Sconforto e disperazione, almeno per la maggior parte della gente di qui. Ma non per me. Dove gli altri vedono solo povertà e miseria, i miei occhi scorgono in lontananza seconde possibilità, e persone che hanno lottato e ce l’hanno fatta.

  Il miscuglio di smog e nuvole avvolge tutti i dintorni in una luce opaca, e oggi mi sento un po’ opaca anche io. Tra non molto dovrò prendermi una pausa, se non voglio soccombere al burnout. Nel corso degli anni ho sviluppato una sorta di radar che valuta con relativa precisione quanto sono in grado di sopportare, e mi avvisa quando devo stare attenta a non caricarmi di troppe responsabilità. Contare soltanto su se stessi ha un notevole svantaggio: la responsabilità di capire quando è il caso di fermarsi e ricaricare le batterie è tutta tua. Per questo il prossimo venerdì sera ho deciso di dedicarmi a me stessa.

  Adesso invece la mia attenzione non è concentrata su di me, ma su Kylie e Steve, che, dopo l’arrivo del piccolo Milo e il soggiorno in carcere di Steve, stanno imparando a diventare una famiglia. Steve è stato rilasciato appena in tempo per assistere alla nascita del figlio. Questa nuova situazione che lui e la sua compagna si trovano a dover affrontare è stata la motivazione principale per cui l’hanno incluso nel mio programma di reinserimento sociale. Lo sto accompagnando nel suo percorso di ritorno alla vita, e alla quotidianità.

  Suono il citofono dell’appartamento numero 34 e un attimo dopo sento il ronzio del portone che si apre. L’androne è piacevolmente fresco, un sollievo dopo l’afa che regna fuori. Da giorni le previsioni meteo danno pioggia, ma invece di un bel nubifragio lottiamo tutti contro l’aria inquinata e la massa opprimente di nubi.

  L’ascensore è rotto – lo è fin dalla mia prima visita, quasi un mese fa –, perciò salgo le poco invitanti e spoglie scale fino al terzo piano. Le pareti sono imbrattate di graffiti e di sporcizia, alcune striature non voglio nemmeno sapere di che cosa siano.

  Arrivata al piano, busso alla porta. In palazzi come questo nessuno lascia accostato mentre aspetta che gli ospiti salgano. Sento il chiavistello che viene tolto dall’interno e un istante dopo Kylie mi apre, con in braccio il minuscolo Milo.

  «Ciao, entra», mi invita con un sorriso stanco.

  La seguo in salotto, dove mi siedo come al solito sul divano malconcio.

  «Come state?» chiedo, mentre sfilo dal polso l’elastico nero e lo uso per legarmi i capelli in una coda.

  «Be’», risponde Kylie, «se il piccolo non urlasse così tanto andrebbe meglio.» Neanche a farlo apposta, Milo comincia a piagnucolare. Kylie sospira e prova a cullarlo un po’ per calmarlo. «Steve?» chiama nel frattempo. «Non hai sentito il citofono?»

  Dalla stanza accanto si sente un brontolio e poco dopo compare Steve, con indosso i pantaloni grigi di una tuta infilati nei calzini bianchi da tennis, e una maglietta slabbrata.

  «Scusate», mormora, «dovevo ancora vestirmi.» Mi rivolge un cauto sorriso, e io tiro fuori dalla borsa un raccoglitore pieno di documenti.

  «Sono offerte di lavoro?» chiede. Il suo interesse pare essersi risvegliato.

  La disoccupazione gli pesa molto. Per un meccanico esperto come lui i posti non mancherebbero, ma il suo passato criminale rende tutto più difficile. Al momento la famiglia vive dei miseri risparmi di Kylie e dell’aiuto offerto dalla madre di Steve. Non possono andare avanti così ancora a lungo, e lui ha bisogno di uscire di casa, perciò ho agganciato un paio di agenzie di lavoro temporaneo, alle quali potrà mandare il suo curriculum.

  «Spero che salti fuori qualcosa», dice Kylie mentre cerca di calmare Milo, dandoci le spalle. «Non ce la faccio più ad averlo in casa, mi fa diventare pazza.»

  Parla con voce aspra, ma io non mi lascio ingannare. So quanto è felice di riavere accanto il suo ragazzo.

  «Anche tu potresti cercarti un lavoro», propone Steve.

  «Sì, se tuo figlio non mi stesse attaccato alle tette dalla mattina alla sera.»

  Steve sbuffa e abbassa lo sguardo sulla lista delle aziende in cerca di lavoratori temporanei. Milo intanto sembra averne abbastanza della situazione, perché ricomincia a emettere gemiti disperati. Kylie sospira, Steve brontola… e tutto questo è davvero troppo per me, ma è il mio lavoro. La mia vita. Esserci per queste due persone, offrire loro speranza e la sensazione di poter gestire qualsiasi imprevisto.

  Kylie batte delicatamente la schiena del neonato con una mano, finché Milo non le rigurgita sulla spalla. «Cazzo», sibila, tenendo il bambino a mezzo metro di distanza. Almeno ha smesso di strillare.

  «Amy, potresti un attimo…?» mi chiede, mettendomi il piccolino tra le braccia senza attendere una risposta. «Devi solo sorreggergli
la testa», mi spiega, e un attimo dopo sparisce nel bagno.

  Mi irrigidisco per un istante. Non sono il tipo che ti sorregge la testa, che ti si sdraia accanto per riscaldarti, o a cui piace la vicinanza fisica. Lo permetto solo a Jeannie, la bambina che ho in affido. Milo mi fissa con i suoi occhi blu sorprendentemente svegli, io guardo Steve, sperando che si prenda suo figlio, ma non accade niente del genere. È concentrato sulla lista e sembra non essersi reso conto che non so cosa fare.

  «Okay», dico sia a Milo sia a me stessa, posandomi il neonato in grembo e stando attenta a sostenergli la testa con il braccio. Steve alza per un attimo il capo e annuisce. A quanto pare la mia goffaggine non si nota.

  Il bimbo trasmette calore alle mie gambe, come se non facesse già abbastanza caldo. Ma allo stesso tempo è una sensazione quasi tranquillizzante, pacifica. Milo ha un odore particolare, dev’essere il profumo dei neonati di cui parlano tutti. Si lamenta un po’, perciò lo accarezzo delicatamente sopra la tutina morbida che indossa. Lui fa un altro piccolo gemito e io ripeto il gesto. Sembra piacergli, e a un certo punto espira rumorosamente. Il suo pare quasi un sospiro di sollievo. Assurdo, penso. Una persona così piccola e indifesa seduta qui, sulle mie gambe. Una creaturina che dipende in tutto e per tutto da me, e non può fare altro che sperare che me la cavi.

  «Guarda, ho sistemato il curriculum come mi avevi detto tu.» Steve mi strappa ai miei pensieri e mi porge un foglio.

  Durante la mia ultima visita gli avevo spiegato che con un po’ di formattazione il suo curriculum avrebbe fatto un’impressione migliore e l’avevo introdotto al mondo dei modelli preimpostati. Ma soprattutto gli avevo consigliato di non vuotare subito il sacco e di non menzionare la detenzione già nella lettera di accompagnamento. Non ne facciamo mistero, in genere contatto io in anticipo le aziende per sapere se Steve ha qualche possibilità, e in ogni caso il periodo di interruzione dell’attività lavorativa è già abbastanza eloquente.

  Milo sonnecchia sulle mie gambe mentre correggo gli errori di ortografia nel documento di Steve. Kylie ritorna in salotto, ma non sembra intenzionata a riprendersi il bambino, e io constato che in realtà non mi dà più fastidio averlo in grembo. Anzi, lo trovo curiosamente confortante.

  «Grazie per il tuo aiuto, Amy», dice Steve una mezz’ora dopo, quando sto per andarmene. «Adesso deve solo andare in porto qualcosa, finalmente.»

  «Non preoccuparti», lo rassicuro. «Troveremo qualcosa.» Finora non ho mai deluso nessuno dei miei protetti. Saluto ed esco sul pianerottolo, quando Kylie, di nuovo con Milo in braccio, lascia il suo ragazzo sulla porta e si avvicina.

  «Amy?» mi chiede timidamente. Guardo la sua figuretta minuta e dalla pelle liscia, e mi rendo conto ancora una volta di quanto sia giovane. Ha solo diciotto anni.

  «Sì?»

  «Ho un’ultima domanda.»

  «Spara», dico in tono incoraggiante. In teoria sarei l’assistente sociale di Steve, ma ovviamente sono felice di aiutare anche lei, qualsiasi cosa la turbi.

  «Ehm, ecco, sai già che Milo è nato con un po’ di anticipo.»

  Annuisco. Per questo era diventato fondamentale poter inserire Steve nel mio programma, e con l’aiuto dello psicologo del carcere siamo riusciti ad anticipare di un paio di giorni il suo rilascio. Un risultato che mi è costato parecchia fatica, ma ne valeva proprio la pena.

  «Quindi non sono riuscita a sostenere gli esami», prosegue Kylie, spostando il peso del corpo da un piede all’altro. Difficile dire se lo fa per cullare Milo oppure perché è nervosa. «Secondo te potrei dare l’esame per il diploma l’anno prossimo? Magari frequentando una scuola serale?»

  «Cara Kylie», rispondo, «è un’idea splendida.» Trovo davvero fantastico che lei si preoccupi anche del suo futuro. Tante altre ragazze si rassegnano al proprio destino, e so fin troppo bene cosa succede quando le cose vanno storte. «Cerco un po’ di materiale informativo e te lo porto la prossima volta.»

  «Grazie», dice lei, sorridendo prima a me e poi al piccolo che ha in braccio. E anche io sorrido senza quasi rendermene conto, mentre penso al calore di Milo e a quell’inconfondibile profumo di neonato.

  2

  Sam

  «SEI tu Sam?» chiede una moretta graziosa, sebbene un po’ troppo truccata, che si è appena alzata dal suo tavolo.

  Dentro di me si fa largo la strana agitazione che accompagna sempre gli appuntamenti al buio. «Sì, sono io», dico passandomi una mano tra i capelli con consapevole disinvoltura. Poi le rivolgo un sorriso seducente, che non manca mai di fare il suo effetto, e infatti anche Sarah non rimane immune al mio fascino, me lo rivela il sorriso che vedo distendersi sulle sue labbra. Imita il mio gesto di sistemarsi i capelli e arrotola una ciocca intorno all’indice.

  Mi siedo di fronte a lei al tavolo di legno scuro. «Cosa bevi?» chiedo dando un’occhiata al suo drink trasparente, in cui galleggia una fetta di limone.

  «Gin tonic. Ne vuoi un sorso?»

  Mi porge il bicchiere. Mi piace che sia così aggressiva. Dal suo profilo sull’app di incontri avevo avuto la stessa impressione.

  In quel momento un cameriere passa davanti al nostro tavolo e ordino un drink per me.

  «Quindi ecco che aspetto ha un dottorando, non male», commenta Sarah battendo le ciglia. «Cosa studi esattamente?»

  So bene che queste sono solo chiacchiere di cortesia. Negli ultimi mesi ho avuto un sacco di appuntamenti di questo genere, la maggior parte al Vertigo, il mio locale di riferimento, nel quartiere della movida di Pearley. Funziona quasi sempre allo stesso modo: si chiacchiera, si flirta un po’ e poi si va da me o da lei. Oppure ci si dà un secondo appuntamento, per andare da me o da lei.

  «Letteratura», taglio corto. Non vale la pena di approfondire.

  «Per fare il tassista da grande?» Ride, gettando il capo all’indietro.

  Sono abituato a questo genere di commenti e di solito li ignoro, così non faccio caso alla battuta di Sarah. Non mi importa se le mie conoscenze occasionali sminuiscono quello che faccio, mi interessa soltanto che le persone che significano davvero qualcosa nella mia vita mi prendano sul serio. «E tu che fai?» chiedo a mia volta.

  «Ah, un po’ di tutto. Lavoretti saltuari. Ma vorrei diventare una musicista.»

  «Suoni in una band? Fico. Che strumento?»

  Lei ride di nuovo. «Non suono niente. Forse in realtà dovrei fare l’attrice. O la modella.»

  Ci passo sopra, in fondo non sono certo qui in cerca della mia anima gemella. Però faccio un altro tentativo. «Quindi ti piace il cinema?» Questo potrebbe essere un punto in comune. Il cameriere porta il mio drink e brindiamo.

  «Come? No.» Getta di nuovo il capo all’indietro e ride. «Però adoro stare al centro dell’attenzione.» Non fatico a crederci. «E poi, a chi non piacerebbe vedere questo spettacolo su una locandina?» dice passandosi le mani su tutto il corpo.

  Deglutisco. Riesco a immaginarla benissimo su una locandina. Mi passo di nuovo la mano tra i capelli, poi mi appoggio allo schienale della sedia e la squadro dalla testa ai piedi. Senza essere invadente, cerco di farle capire le mie intenzioni.

  «Anche tu dovresti fare il modello. Di sicuro guadagneresti di più che con i libri e roba del genere.»

  Meno abbiamo in comune, più è facile per me. Sfodero anch’io la mia risata sexy, non troppo forte, né troppo sommessa, ma profonda e leggermente roca, dopodiché le riservo il mio sguardo intenso alla James Dean, con la testa un po’ inclinata di lato e verso il basso. Tutti questi dettagli ormai mi vengono naturali: la camminata sicura di sé, il modo di appoggiarmi alla sedia, la mano tra i capelli, lo sguardo. È un gioco, una danza, ed entrambi sappiamo dove conduce.

  «Ma hai già lavorato come modella?» chiedo per non far morire la conversazione, per quanto banale. Rovinerebbe l’atmosfera, anche se chiaramente nessuno dei due è interessato a scambiarsi cortesie, e ancora meno a intavolare un vero scambio di opinioni.

  «No, non per il momento. Devo ancora essere scoperta da qualcuno», risponde Sarah, riprendendo a giocherellare con una ciocca di capelli tra le dita.

  Non so
bene cosa rispondere, sono sbalordito da lei. «E come si viene scoperti?» chiedo infine, attento a nascondere bene la nota di incredulità nella mia voce.

  «Per strada, su internet…» Alza le spalle. «Ho già diecimila follower su Instagram. Vuoi vedere?»

  Senza aspettare la mia risposta mi porge il cellulare.

  «Guarda, questa sono io con un nuovo rossetto», spiega cliccando su una foto in cui ha le labbra in fuori. Io e il mio nuovo rossetto, c’è scritto sotto. «E questa sono io con il mio cane, Stella.» Ingrandisce una foto in cui si vede lei, sempre con le labbra in fuori, in compagnia di un carlino. Io e la mia piccola Stella, leggo. «E infine questa sono io con un nuovo bikini.» Vedo più che altro il suo seno, tondo e bello, e a malapena coperto. E la didascalia, neanche a farlo apposta, dice: Io e il mio nuovo bikini.

  «Wow», commento, riferendomi, contrariamente alle sue aspettative, non alle foto, ma ai suoi sorprendenti testi. E forse potrei essere un po’ ironico, in ogni caso sto attento a non far trapelare nulla di tutto questo.

  «Mi sono rifatta il seno.» Di nuovo la testa all’indietro. «Ma adesso è proprio bellissimo, molto meglio di prima, molto più perfetto.» Mi fa l’occhiolino.

  «Wow», ripeto, anche se mi riesce sempre più difficile nascondere l’ironia nella mia voce.

  «Vuoi toccarlo adesso o dopo?» Sarah si passa la lingua sulle labbra.

  «Ehm, meglio dopo», rispondo, anche se non sono più così sicuro che ci sarà un dopo.

  «Guarda, questa sono io con la mia migliore amica.» Mi porge di nuovo lo smartphone e mi fa vedere una foto di se stessa insieme a un suo clone. Sembrano davvero identiche, ma forse dipende dal fatto che entrambe sporgono le labbra allo stesso modo. «Quattromila like», dice lei orgogliosa.

  Vorrei quasi chiederle lei qual è delle due, quando lo sguardo mi cade sul testo sotto il conteggio dei like: Io e la mia migliore amica. Per un istante non riesco a dominarmi e mi sfugge una risatina.